Dalle mense nobiliari alle tavole popolari.
Non è un addetto ai lavori. Non è un cuoco di professione. Non è uno scalco, ossia un soprintendente alle cucine nobiliari e maestro di cerimonia. Non è un trinciante, cioè un incaricato alla trinciatura delle vivande, spesso carni, tagliate al volo, tenendole a mezz’aria con il forchettone, davanti alla tavola imbandita. E non è nemmeno un bottigliere, vale a dire l’esperto che sceglie i vini per il banchetto.
L’autore della Cucina teorica-pratica è un appassionato di gastronomia. Non un semplice appassionato, come tanti, ma uno colto e spigliato.
L’autore
Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino (1787-1859), è un nobile napoletano che discende dalla stessa antica, aristocratica famiglia fiorentina da cui proviene il celebre Guido Cavalcanti, poeta del Dolce Stil Novo e amico di Dante Alighieri.
Dilettandosi di cucina, Ippolito trova il tempo, tra un impegno e l’altro (il duca fa parte, con il cognato Giuseppe Como, barone di Santo Stefano, dei cosiddetti “Eletti di Napoli”, una ristretta cerchia di nobili che collabora al governo della città), di dare alle stampe un ricettario.
È la Cucina teorica-pratica, che rimarrà, per le sue peculiarità, una pietra miliare della letteratura gastronomica italiana.
L’opera
La Cucina teorica-pratica col corrispondente riposto ed alcune nozioni di scalcare è un compendio di cucina tradizionale napoletana, ma comprende anche alcune ricette d’ispirazione francese poiché la cucina d’Oltralpe è, nella prima metà dell’Ottocento, molto presente sulle mense dell’aristocrazia o dell’alta borghesia.
Il libro, pubblicato a Napoli dall’editore Luigi Marotta nel 1837, viene ampliato, nella seconda edizione del 1839, con l’appendice dal titolo Cusina casarinola co la lengua napolitana (Cucina casareccia in dialetto napoletano).
Il testo di Ippolito Cavalcanti, che avrà dieci edizioni (l’ultima nel 1877), abbastanza diverse fra di loro in quanto continuamente aggiornate e ampliate dall’autore, è indirizzato a un pubblico socialmente elevato, sebbene l’aggiunta di ricette in uso, all’epoca, nelle classi popolari e trascritte in dialetto napoletano indichi l’intenzione dell’autore di parlare a una più ampia fascia di lettori.
Cavalcanti strizza l’occhio alla territorialità, e lo fa da una posizione di parità, rispetto all’ideale di una cucina “nazionale” e al modello francese, e non d’inferiorità. E questo grazie all’alto livello culturale del duca di Buonvicino.
Anche gli altri testi di gastronomia “regionale” che, dagli ultimi decenni del XVIII secolo, costellano la produzione libraria italiana, orientandosi ai ceti borghesi e alle donne di casa, conquistano una propria individualità rispetto a una gastronomia italiana e, soprattutto, d’Oltralpe. E proprio in questo dialogo a distanza tra “pari” stanno, nonostante la caratura degli autori lasci spesso a desiderare, lo specifico interesse di questa letteratura “minore”.
Perché leggerla
Il trattato e il compendio di Ippolito Cavalcanti, entrambi scritti con uno stile semplice e immediato, arricchito da note argute e interessanti osservazioni, rivestono una notevole importanza dal punto di vista storico. Sapete perché? Perché vi sono riportate alcune delle ricette più diffuse nella moderna cucina italiana.
Ecco, per esempio, la prima descrizione di una pasta (i vermicelli) condita con il pomodoro.
Anche se è praticamente impossibile stabilire chi fu il primo ad avere l’idea di condire un piatto di spaghetti con la salsa di pomodoro (il cuoco Francesco Leonardi, autore alla fine del Settecento dell’Apicio moderno, è il primo a usare stabilmente i pomodori nelle sue ricette e vanta, come propria, l’invenzione della combinazione gastronomica spaghetti-salsa di pomodoro), non vi è alcun dubbio che la ricetta dei vermicelli conditi con il frutto giunto dalle Americhe venga proposta per la prima volta nell’opera del duca napoletano.
Nella prima metà dell’Ottocento, gli spaghetti sono già diffusi in Italia da diversi secoli, mentre la salsa di pomodoro è stata inventata alcuni decenni prima, più precisamente nel 1762 dall’abate Lazzaro Spallanzani, appassionato di scienze naturali, che per primo scopre che, ponendo in contenitori chiusi ermeticamente dei pomodori bolliti, questi ultimi si conservavano più a lungo. Di certo, è in Italia che si pensa di condire per la prima volta un piatto di spaghetti con una salsa a base di pomodori, dando vita a un piatto che avrebbe fatto la storia della gastronomia, non solo italiana, ma mondiale.
Nella sua Cucina teorica-pratica, Cavalcanti riporta anche altre pietanze, di origine napoletana, che sarebbero poi diventate patrimonio della gastronomia tricolore, come il panzerotto, gli spaghetti con le vongole e il baccalà fritto. E molti piatti tipici, cucinati per le ricorrenze importanti dell’anno, quali Natale, Capodanno, Pasqua.
Voi avete qualche piatto partenopeo che vi è entrato nel cuore e che cucinate spesso?