Il monumento gastronomico del mondo latino.
Avete mai assaggiato la lingua di fenicottero? E i talloni di cammello? Ecco, il De re coquinaria (L’arte culinaria) di Apicio potrebbe darvi qualche utile e insolito spunto.
L’autore
Il nome di Apicio è da sempre legato alla gastronomia, a pietanze raffinate e ingredienti stravaganti, a banchetti opulenti e sontuosi.
Però… esistono diversi Apici, poiché conosciamo tre differenti personaggi con questo nome.
Un Apiciovissuto molti anni prima di Cristo, che inveisce contro la legge Fannia proposta da quel “guastafeste” di Rutilio Rufo per limitare l’eccessivo lusso nei banchetti.
Poi un Marco Gavio, straordinariamente ricco, che vive sotto l’impero di Tiberio, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., e viene soprannominato “Apicio”dal nome del famoso ghiottone del secolo precedente.
Infine, un Apiciovissuto sotto Traiano, specializzato nella conservazione delle ostriche.
Al secondo, che è gastronomo, cuoco e amante della bella vita (Seneca racconta che si tolse la vita col veleno, quando si accorse che il suo patrimonio si era ridotto a “soli” dieci milioni di sesterzi!), è attribuita la raccolta di ricette che costituisce il nucleo preponderante del De re coquinaria.
Un’altra ipotesi sull’autore di questo trattato è che sia un certo Celio (il cui nome compare, dopo quello di Apicio, in alcuni codici), ma pare che si tratti di una congettura d’epoca umanistica.
L’opera
Questo monumento gastronomico del mondo latino raccoglie ricette prelibate e indubbiamente curiose ai nostri occhi. Dagli intingoli di creste tagliate a volatili vivi alle triglie fatte morire nel garum, onnipresente condimento a base di interiora di pesce, ai saporosighiri allevati in particolari giare di terracotta. Stranezze culinarie, che ricordano molto da vicino i piatti offerti da Trimalcione, il protagonista del Satyricon di Petronio, nella sua celebre cena.
Ma queste ricette non dovevano apparire così originali ai contemporanei di Apicio, visto che ne hanno tramandato la formulazione nel tempo, dando vita, edizione dopo edizione, al corpus di cui attualmente disponiamo.
Anche se noi oggi conosciamo il De re coquinaria in un’unica compilazione, gli storici ritengono che si tratti della fusione di due differenti opere: una citata spesso da altri autori, dedicata unicamente alle salse, e un’altra di cucina, con suggerimenti per piatti completi.
La raccolta che è giunta fino a noi è un testo complesso, costituito da più sezioni non omogenee tra loro, probabilmente composte in più secoli (dal I a.C. al IV d.C.), e può essere datata, in base alle caratteristiche stilistiche della lingua, intorno al 385 d.C.
È un libro scritto da cuochi per cuochi e il latino utilizzato, povero dal punto di vista letterario, è tuttavia adatto al linguaggio semplice ed essenziale di coloro che cucinavano all’epoca, ai quali bastava un semplice promemoria per riproporre preparazioni e ricette, anche senza l’elencazione precisa di tutti gli ingredienti, delle quantità e dei procedimenti.
Perché leggerla
Il De Re Coquinaria è l’unico documento gastronomico del periodo romano, sopravvissuto al naufragio dell’Impero e arrivato fino a noi.
Più volte ripreso, è stato pubblicato per la prima volta in edizione italiana, con versione latina a fronte, da Giambattista Baseggio, nel 1852, per i tipi di Antonelli col titolo: Delle vivande e condimenti ovvero dell’arte della cucina.
In Academia Barilla esiste il facsimile del più antico manoscritto di questo volume, prodotto nel IX secolo nello scriptorium di San Martino di Tours, in Francia, il cui originale è oggi conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.
Nell’antica Roma, le classi più elevate potevano organizzare sfarzosi banchetti con cui intrattenere e spesso stupire i propri ospiti. E disporre di prodotti alimentari che provenivano da ogni parte dell’Impero e che confluivano in un ricco apparato di piatti, sia semplici sia elaborati, che prevedevano pesce, carne, legumi e verdura, generosamente conditi da salse dolci e salate.
Per questo motivo, il volume è una preziosa testimonianza su come i nostri progenitori cucinavano e, soprattutto, su che cosa cucinavano. Torniamo alla domanda di partenza: avete mai assaggiato la lingua di fenicottero? E i talloni di cammello?