L’APICIO MODERNO DI FRANCESCO LEONARDI

Dalle tradizioni gastronomiche regionali alla cucina italiana.

È un cuoco, ma vive da cittadino del mondo. E non ha certo bisogno di un mental coach.

L’autore dell’Apicio moderno, ossia l’arte di apprestare ogni sorta di vivande conduce una vita intensa, da una parte all’altra dell’Europa, ma trova il tempo di scrivere un monumentale trattato di cucina in sei tomi e altri volumi di natura gastronomica.

L’autore

Di Francesco Leonardi (1730 ca.-1816 post), sappiamo ben poco, se non quanto possiamo dedurre – con riserve – dai pochi cenni contenuti nelle sue opere.

Di origini romane, il suo noviziato culinario avviene a Parigi, alla metà del Settecento, nelle cucine del Maresciallo di Richelieu. Quindi ritorna in Italia, a Napoli, presso Michele Imperiali, principe di Francavilla e marchese d’Oria.

Nel 1772 viene assunto dal cardinale De Bernis, ambasciatore di Francia presso la Santa Sede.

Lavora in diverse campagne di Luigi XV, viaggia per tutta Europa con il generale Ivan Ivanovic Shouvaloff, gran ciambellano di Russia, e, al suo seguito, giunge nel 1778 a San Pietroburgo, dove diviene maestro di casa del principe Grigorij Grigorevic Orloff e, alla morte di questi nel 1783, cuoco particolare e scalco dell’imperatrice Caterina II.

A causa del clima troppo rigido, Leonardi lascia la Russia e rientra in Italia. Lo ritroviamo a Roma, nel 1781, cuoco particolare del cardinale De Bernis, plenipotenziario di Luigi XV presso la Santa Sede, per il quale organizza un sontuoso banchetto di più di cento persone, per festeggiare la nascita del Delfino di Francia.

Nel 1803 è in Austria, al seguito del principe Soltikoff, e nel 1804 a Napoli, presso il duca di Gravina, in qualità di maestro di casa, fino all’arrivo dei francesi e la partenza del suo padrone per la Sicilia nel gennaio 1806. Quindi rientra a Roma, dove assiste, quale scalco, l’imperatore d’Austria, Francesco I, in occasione della sua visita di stato a Roma, nella primavera del 1816, nel corso del fastoso banchetto offerto al Quirinale da Pio VII.

L’opera

L’Apicio moderno, pubblicato a Roma nel 1790, e ancora nel 1807-8 con l’aggiunta di due nuovi tomi sull’arte del credenziere, pur essendo stata concepita dal suo autore come un’opera per cuochi al servizio di principi, racconta le varie ricette regionali, dichiarandole come tali.

Non mostra alcun senso d’inferiorità nei confronti della cucina “nazionale” francese. Anzi. Siamo alla fine del XVIII secolo e il concetto di territorio ha acquistato valore, grazie alla Rivoluzione Francese. Non a caso, dai primi dell’Ottocento uscirà in Italia tutta una serie di pubblicazioni gastronomiche dichiaratamente regionali.

Leonardi è il primo grande cuoco a usare stabilmente i pomodori e vanta, come propria, l’invenzione della classica combinazione napoletana della pasta con il pomodoro. Di certo, il suo sugo, ottenuto con pomodori privi di semi e fatti sobbollire aggiungendo cipolle, sedano, aglio e basilico, è a tutt’oggi il condimento di molti nostri piatti.

Quando Leonardi pubblica l’Apicio moderno, dichiara di attendere a un’altra opera impegnativa, quel Dizionario ragionato degli alimenti di cui si conoscono soltanto i primi tre volumi (sino alla lettera E), editi a Roma nel 1795 da Paolo Giunchi.

Gianina, ossia la cuciniera delle Alpi, stampato a Roma in tre tomi nel 1817, a parte la fantasiosa introduzione di stampo romantico, è sostanzialmente un rifacimento dell’Apicio moderno, ulteriormente rimaneggiato e riedito nel 1826 con il titolo Il cuciniere perfetto italiano.

E anche Tonkin, ossia il credenziere cinese, pubblicato nel 1827, a parte l’interessante introduzione che presenta le nuove funzioni dello scalco e del servire a tavola, riprende il testo dell’Apicio Moderno.

Perché leggerla

Dal Seicento, la letteratura gastronomica italiana abbandona ogni pretesa di egemonia universale per muoversi in una dimensione eminentemente regionale, più in sintonia con la situazione politica e sociale della penisola. Come se, perduto di vigore il filone della cucina di Corte di livello “alto”, potesse finalmente esprimersi una realtà culturale sommersa, fatta di prodotti e tradizioni locali, a lungo oppressa dagli orpelli del fasto e dell’ostentazione.

Il testo di Leonardi, rifacendosi all’idea del trattato latino da cui prende il nome, tenta il recupero di una dimensione “nazionale” della cucina italiana, sia pure segmentata in composite realtà regionali.

In apertura è posto, secondo lo stile francese, un cenno storico sull’evoluzione del gusto a tavola – il primo tentativo del genere in Italia –, da cui traspaiono sia i mutamenti intervenuti nella cucina della nostra penisola nel corso dei secoli, sia l’importanza delle tradizioni locali e regionali per la rinascita di un’autentica cucina italiana. Sono proprio i nessi fra gastronomia e territorio a favorire quella varietà e ricchezza che ancora oggi contraddistinguono la cucina del nostro Paese nel mondo.

Leonardi, nel raccogliere gli usi gastronomici locali e nell’attribuire loro la stessa dignità delle tradizioni “nazionali” europee da lui conosciute in cinquant’anni di esperienza, anticipa, in certo qual modo, il programma di unificazione della cucina italiana messo in atto, un secolo più tardi, da Pellegrino Artusi.

Quali sono i prodotti tipici e le ricette della tua regione che sono oggi simbolo della cucina italiana?

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