PIETRO LEEMANN: LA SUA “CUCINA RESPONSABILE” CHE SI FA EMOZIONALE
“La vita è un viaggio ritmato dalle scelte che facciamo”.
Così inizia la chiacchierata con Pietro Leemann, chef dalla pluriennale esperienza, colui che ha portato la stella Michelin nel mondo della cucina dove sono frutta e ortaggi i veri protagonisti del piatto.
Il suo “JOIA” ha appena spento le 30 candeline, fedele a una identità che nel tempo si è consolidata, è maturata e ha definito uno stile di vita. Già, perché la cucina che lo chef Leemann porta avanti è qualcosa di più del preparare cibo gourmet, si posiziona al limite di quella linea sottile sulla quale si incontrano convinzioni radicate e necessità di esprimerle.
E in fondo è così che inizia la carriera di Pietro Leemann, con il bisogno di dare voce a una tensione di pensiero, di azione, di ideologia. La sua gavetta è nelle cucine di grandi ristoranti: lì assorbe tecniche, metodologie e disciplina. Ma questo non gli basta. Non lo rappresenta.
“Ho scelto questo lavoro istintivamente quasi per caso, anche se poi spesso ci si rende conto che la casualità ha un senso più preciso e definito. Ciò che noi facciamo determina chi siamo e la prospettiva verso cui ci dirigiamo, quella che ci porta al cambiamento. Il segreto è di non bastarsi mai, di tendere sempre al confronto, solo così si rimane giovani. Ciò che accadeva, e che accade ancora oggi nella maggior parte dei ristoranti, è il voler dare piacere ai clienti quale essenza dell’essere cuochi. Il rischio è di cadere nell’indulgenza dell’aggiungere quegli elementi zuccherini o grassi che non fanno bene. L’edonismo faceva da padrone rispetto a un equilibrio alimentare che, invece, era quella che io ricercavo e continuo a sentire parte di me”.
Da qui l’inizio della sua ricerca e dello studio che non ha mai abbandonato. Un anno sabbatico a Ginevra per approfondire il tema della cucina vegetariana, poi corsi di filosofia e psicologia e, infine, l’arrivo in Cina e Giappone. Incontra così due culture affascinanti, suggestive, che lo incantano e rapiscono con la loro profondità di radici, sfumature e delicatezza.
“La cucina di ogni luogo ne rispecchia i bisogni e la cultura. In realtà sono due aspetti che vanno di pari passo: la cucina forma la filosofia e la filosofia forma la cucina, anche se in questo momento storico sembra sia proprio quest’ultima ad avere la meglio. Un paradosso direi. Nel taoismo, nella filosofia zen, c’è perfetta assonanza, si mangia per un senso e si fa filosofia per un senso. Nulla risulta fine a sé stesso. Lo scopo è migliorare chi siamo, stare in salute. C’è una disciplina, un fare organizzato per uno scopo. Ho capito come vi sia una correlazione tra l’essere e il fare, regolando l’uno si regola l’altro”.
È qui che risiede il primo vero fil rouge che lega il pensiero e l’azione dello chef Leemann, il suo bisogno di rispettare ed esaltare quell’equilibrio naturale che manovra il cosmo. Difficile condensare un impulso che è parte integrante della sua anima, che trasuda quel rigore educato e deciso di chi ha la ferma convinzione che quella intrapresa sia la strada corretta. La strada che lo ha chiamato.
Ecco perché al JOIA la cucina e i menù concretizzano un discorso che supera la più classica rappresentazione della ristorazione. Sono l’esternazione e il racconto di una presa di coscienza, di una posizione ben salda, di una pulsione espressiva. In una parola: vocazione.
“Diventare vegetariano per me è stata una necessità, quella di seguire qualcosa che mi corrispondesse”.
Dalle parole dello chef, dal suo sorriso tranquillo, si legge la certezza di un’idea, la volontà di trasmetterla e il desiderio di continuare a parlarne attraverso la creazione di piatti che appaiono come tavolozze. Non esiste monotonia, gli ortaggi e la frutta si fanno polimorfi presentandosi sotto vesti differenti, talvolta inaspettate, risultato di una linfa creativa in costante divenire.
“La cucina vegetariana è più divertente da realizzare, variegata e fantasiosa. Non ci sono limiti. In più è sostenibile, sana e molto gustosa. Questo mi ha portato a essere in sintonia con ciò che ritengo giusto”.
L’affermazione dello chef arriva accompagnata da un sorriso, forse nel momento stesso in cui nella sua mente si fa spazio una nuova visione, l’accostamento di diversi ingredienti.
“L’ispirazione è la mia riflessione che diventa piatto, perché oltre alla emozione io desidero trasmettere un pensiero”.
Lo si può definire un precursore, un coraggioso, perché il cammino in quello che poi è diventato il suo mondo è stato affrontato con decisione, ma anche difficoltà e sofferenza. L’esigenza è quella di sensibilizzare, di parlare ai suoi colleghi trasmettendo loro il bisogno di ritrovare quella purezza che solo la natura possiede.
“La purezza della natura è l’elemento riconoscibile anche nella mia cucina, nonostante sia spesso complessa da realizzare. È proprio l’evocazione di quella purezza a rimanere e perdurare, questo è il vero potere del cibo”.
C’è la ricerca dell’unicità di prodotto, della nicchia, della qualità. Una tendenza iniziata fin da piccolo, crescendo in mezzo alla natura delle montagne svizzere, in una famiglia dove il cibo è sempre stato importante. Sono ricordi ancora nitidi, che hanno il richiamo delle radici. È qui che ricompare l’immagine della semplicità, quella trasmessa da un piatto di pasta al sugo come solo sua madre sapeva fare.
“La pasta mi ricorda il profumo della famiglia, rimanda alla condivisione casalinga, al piatto della festa. Per me rimane un alimento irrinunciabile, come lo è il cibo della domenica. Non a caso la domenica è giorno del frumento”.
Ripercorrendo il periodo dell’infanzia, torna forte il concetto dell’importanza della memoria, della Madeleine di Proust, ovvero che ciò che tutti cerchiamo è il ricordo del sapore, quella evocazione che porta serenità e benessere.
Di Chiara Marando