UNO CHEF ALL’IMPROVVISO: ALBERTO GIPPONI E IL SUO “DINA”
“Quello che faccio qui è provare a offrire ciò che io vorrei ricevere”.
Lui è Alberto Gipponi, chef dalla carriera che si può definire folgorante, e il suo luogo di espressione è “Dina”. Siamo a Gussago, in provincia di Brescia, all’interno di una casa che si mimetizza nel centro del paese. Varcata quella soglia, però, ecco aprirsi un mondo. Il suo, quello di Alberto.
Dina è evoluzione, è i diversi volti di una stessa anima tanto inquieta quanto pacatamente riflessiva. Dina è sperimentazione, scontro e carezza. Dina è Alberto, in tutta la sua straripante, ma controllata, necessità comunicativa.
Laurea in sociologia, con esperienza di lavoro in ambito sociale, fa il chitarrista ma non si sente abbastanza bravo da continuare. Ecco quindi che tutto cambia. Oggi Alberto ha 39 anni, la consapevolezza che la cucina sarebbe stata la sua strada è arrivata quando ne aveva 35. Così ha lasciato tutto e seguito questo sogno. C’è chi dice follia. Forse. Grande coraggio sicuramente e desiderio di rimettersi in gioco per dare spazio a quell’impulso che martellava nella testa e nel cuore.
“Non avevo la minima esperienza, ma solo tanta passione” racconta Gipponi.
La prima fugace, ma significativa, esperienza è da “Orsone”, torna poi verso la zona natìa e per 1 anno si ferma al “Nadia” di Castrezzato. Subito dopo è la volta dell’Osteria Francescana, quasi 12 mesi voluti fortemente, vissuti tutti d’un fiato assorbendo come una spugna insegnamenti, consapevolezza e sapere.
“Ho sbagliato tanto – spiega – ma sono sempre riuscito a ricordarmi ogni singolo errore e a correggerlo per non ripeterlo, quasi fosse una ferita. Questo penso sia stato un mio punto di forza, nonostante la completa inesperienza”
Nel 2017 si decide: nasce “Dina”. Il nome è l’omaggio a sua nonna, esempio di vita e legame profondo.
“Ci ho messo otto mesi a creare Dina, senza sosta”.
Era il 17 novembre 2017 quando le porte del ristorante, il suo nuovo mondo, si sono aperte. Una serata che ha segnato la sua vita: “È stato un attimo, una ventata d’aria ha riacceso l’olio contenuto in un pentolino che tenevo in mano. Risultato – racconta Alberto Gipponi – ustioni di terzo grado su entrambe le mani, una operazione e prognosi riservata. Non mi ha fermato, sono tornato al ristorante la sera stessa”.
Da allora tanto è accaduto, numerose conferme e apprezzamenti, ma soprattutto una visione consapevole che cambia seguendo l’evoluzione che contraddistingue Alberto.
“La mia cucina è ispirata dal mondo, dalle persone e dalla loro fragilità. Dina è la mia casa, ma è la casa di tutti”.
Ecco quindi che ogni stanza rappresenta un modo diverso di accogliere, di parlare e raccontare. Che il ristorante si trasforma anche in qualcosa di diverso, una sorta di galleria che racchiude l’amore per l’arte coltivata da “Gippo” fin da piccolo: “Le vacanze della mia famiglia sono state spesso divise in due: io e mio madre entravamo nei musei, mentre mio padre e mio fratello aspettavano fuori”.
Dina è quindi anche questo, fedele interprete del legame con l’ambito artistico. Non a caso, ad accogliere gli ospiti in modo inusuale vi è il neon di Jonathan Monk “Until then if not before”. Poi l’amicizia con il gallerista Massimo Mainini, che ha dato il via a una sorta di collaborazione: all’interno di Dina, infatti, sono esposte opere appartenenti alla sua collezione.
I piatti sono il completamento di questo viaggio, narrano brevi storie da interpretare, più o meno complesse e contrastanti. Sui tavoli capeggia un libro di pagine bianche da scrivere, con impressioni, spunti, emozioni. Anche questa è condivisione, è necessità di ascoltare gli altri.
In una sala, quella chiamata “Laboratorio”, il menù viene addirittura servito al contrario ma, come spiega lo chef, “chi si avvicina alla mia cucina per la prima volta non può mangiare qui è troppo complicato per un approccio iniziale. Quando si sceglie il laboratorio bisogna essere coscienti di quello che si può trovare, è importante aver già provato alcuni dei piatti che propongo”.
I percorsi degustazione sono ciò che meglio definisce lo spirito di Gipponi già dal nome: Il menù da “Cuoco buono”, 5 portate più rotonde e meno audaci; il menù “Una mano nel bianco e una nel nero”, 7 portate che cominciano a percorrere idee maggiormente articolate; il menù “Cuoco post fuoco”, ovvero profondo e gustativamente spinto, quello maggiormente amato da Alberto perché “racconta di me in modo più intenso”.
Nei piatti si incontrano materie prime diversificate, esattamente come le tecniche utilizzate. Ingredienti ricercati che si contrappongono a scelte a volte solo apparentemente tradizionali. A fare la differenza sono lavorazione e accostamenti di sapore.
Anche un piatto simbolo come la Pasta, nelle sue mani cambia il modo di presentarsi: “Per me la pasta è un mondo, è semplicità e complessità allo stesso tempo, è storia e futuro, nutrimento e pensiero”.
Ogni portata diventa la trasposizione di un concetto, l’incontro di elementi che mantengono una precisa identità per poi trovare la loro ragione nell’insieme. Tutto è meticolosamente ragionato e fa ragionare.
“Il quarto livello dell’evoluzione del gusto, tra piacere, sapere e indifferenza è la saggezza. Dobbiamo tornare all’essenza del fare da mangiare. Quello che si dovrebbe creare è una maggiore condivisione tra noi cuochi, più dialogo, una unione dove si parla di cucina senza fatiche, di crescita e successo comune. Il tutto finalizzato a migliorare ciò che arriva nel piatto”.
Di Chiara Marando